Il volto di Kratos s’illumina nella penombra di una caverna, mentre fuori nevica copiosamente. È il Fimbulwinter, il gelido inverno che preannuncia la venuta del Ragnarök. Lo scoppiettio del focolare mette in risalto dettagli del suo viso: vistose rughe increspano la fronte pallida, mentre la folta barba svela diverse visibili note di colore bianco. Il Dio della Guerra che ha ridotto in cenere il Monte Olimpo appare stanco. Accanto a lui siede il figlio Atreus, ed è convinto che non sia ancora pronto per affrontare le battaglie che verranno.
Attorno a loro si estendono le macerie di un’ epoca giunta al termine: il dominio di Asgard sui Nove Regni, l’era di Odino, è agli sgoccioli. Frotte di cadaveri di elfi affollano i freddi deserti di Alfheim, a Vanaheim il germe della ribellione serpeggia tra foreste pluviali in fiore, mentre le statue imperiose di Midgard sono sepolte sotto uno spesso strato di ghiaccio. È un mondo sull’orlo del collasso che non vuole arrendersi. Ma a non volersi arrendere è soprattutto il giovane Atreus, stregato dalle profezie Jotnàr, ossessionato dal nome “Loki” che ha ereditato dalla stirpe della madre, irremovibile nel voler scoprire quale sia il suo ruolo nella fine dei tempi.
Epica, potenza, umanità e sofferenza: sono questi i pilastri che quattro anni fa hanno traghettato God of War fino alla statuetta del Game of the Year. Sono i punti cardinali che hanno orientato la bussola creativa di Santa Monica Studio verso la migliore riapertura di una saga mai incontrata in qualsiasi medium, verso un profondo lavoro di restauro capace di mantenere intatta l’anima originale del Fantasma di Sparta. È da questa pesantissima eredità che nasce God of War: Ragnarök, un’opera investita di un compito impossibile: mettere in scena una versione ancora migliore di un’esperienza quasi perfetta.
Come nel mito di Sisifo, Santa Monica Studio ha dovuto trasportare questo pesante macigno sul fianco di una montagna, e alla fine ce l’ha fatta: è riuscita a costruire un mondo più vasto, più articolato, più dettagliato rispetto al precedente. Tuttavia la scalata ha cambiato qualcosa: lungo il percorso i quattro pilastri che abbiamo menzionato sono sbiaditi, hanno abbracciato nuove tonalità, lasciando spazio a un videogioco straordinario, fuori dal comune, ma profondamente diverso nell’anima.
Siamo ai cancelli della fine dei tempi. Kratos e Atreus, come soldati in terra ostile, hanno scoperchiato un vero e proprio vaso di Pandora spargendo le ceneri della defunta moglie e madre Faye nel mondo dei giganti, sul picco più alto di Jotunheim, proprio come da lei desiderato. Lungo il tortuoso cammino hanno infatti dovuto versare il sangue del dio Baldur e di tanti altri Aesir, scatenando un’inarrestabile catena di eventi che conduce verso un’unica direzione: l’avvento del Ragnarök e il crollo delle divinità di Asgard.
Il destino non si può cambiare. Lo sa bene la gigantessa Faye, che come un architetto silenzioso ha orchestrato il primo grande viaggio di suo marito e di suo figlio; lo sa il Padre di Tutti, Odino, che ha dedicato la sua intera esistenza ad accumulare conoscenze per piegare il corso degli eventi a suo favore; lo sta imparando anche il giovane Atreus, ormai catturato dai pannelli che mostrano il suo futuro come Loki degli Jotnàr. E poi c’è un eccezionale Kratos. L’essere che ha cancellato dall’esistenza un Pantheon, lo spartano nato per distruggere che ha imparato a nascondere la sua rabbia sotto una fragile umanità ritrovata. Oggi è un dio umano, e come tutti gli umani vive di pensieri e preoccupazioni.
È così che inizia God of War: Ragnarök. Un lungo viaggio che è al tempo stesso anche una grande guerra, e non la banale guerra materiale contro gli Aesìr, ma quella di carattere universale contro il destino. Kratos e Atreus, accompagnati da Mimìr e dai nani Brok e Sindri, diventano l’occhio di un uragano che si prepara a travolgere tutti i Nove Regni della mitologia norrena, abbracciando inattesi alleati e inseguendo fiochi barlumi di speranza in un’avventura che si spinge ai confini del mondo.
Su il sipario. Teatro della vicenda è una versione estremamente potenziata dell’universo introdotto nel capitolo precedente, un affresco composto da nove diversi mondi che tutti insieme fanno da sfondo alle vicende dei protagonisti. Dalle miniere sulfuree di Svalfartheim fino alle foreste tropicali dei Vanìr, dai boschi incantati degli Jotnàr fino ai manti erbosi di Asgard, le scenografie si alternano di continuo, come in una lunga staffetta che mescola costantemente l’elemento naturale e quello fantastico, spalancando panorami mozzafiato o stringendo l’obiettivo su splendidi primi piani di passaggi della mitologia.
È allora che salgono sul palcoscenico gli attori. Un cast immenso, variopinto, che non si limita più al contesto di una storia intima ed è intenzionato ad abbracciare la performance corale, piazzando al centro della scena senza troppi complimenti figure del calibro di un infido Odino, un devastante Thor, il redivivo Tyr, la fredda Sif e il custode Heimdall. Ma nelle pieghe dell’intreccio trovano spazio anche lo scoiattolo Ratatoskr, il draco Nidhogg, le temibili Norne, e tantissime altre comparse che non risulteranno nuove a chiunque abbia familiarità con l’Edda e le sue derivazioni.
Questa è l’ambizione dietro God of War: Ragnarök: quella di mettere in scena una grande epopea collettiva che sia più vasta per dimensioni, più profonda nelle meccaniche, quantitativamente più ricca della precedente; una sorta di – passateci un paragone che vi garantiamo sia piuttosto azzeccato – “Avengers Endgame“ dell’avventura di Kratos. Una natura, questa, che apre a un ampio sottobosco di inattese alleanze fondate sulle pieghe della caratterizzazione emergente e, al tempo stesso, anche a un violento cambio di toni e colori che potrebbe lasciare spaesati.
Santa Monica Studio ha scelto di srotolare un tessuto narrativo difficilissimo da chiudere, di introdurre pesantissimi nuovi risvolti nel giocato, di ampliare lo spettro di emozioni, confezionando un’opera che, a differenza della precedente, si è in parte discostata dall’essenza tragica che vive nelle parole God of War, abbracciando la deriva tipica del “grande universo cinematografico” e mettendo tantissima carne sul fuoco, in alcuni frangenti anche troppa per poterla gestire alla perfezione.
Tali fattori hanno portato gli sceneggiatori ad adottare alcune soluzioni narrative molto semplici e altre enormemente più complesse, tratteggiando un racconto che chiude in modo eccellente la saga norrena di Kratos, ma che abbraccia un genere diverso di forza epica e scivola in un ritmo del racconto non sempre impeccabile. Il fatto, però, è che i chiaroscuri di cui vive l’opera finiscono qui, perché oltre questa netta linea si trova solo magnificenza.
Non esiste, ad oggi, un videogioco che possa vantare sequenze d’azione di qualità pari a quelle emerse in God of War: Ragnarök, così come non esiste un titolo che possa contare sulla medesima messa in scena. Quando i lupi Skoll e Hati trottano in cielo squarciando notti stellate, quando antiche creature iniziano a cantare sotto i raggi lunari, ogni volta che Kratos si rimette in piedi dopo aver compiuto imprese sovrumane, l’aria che si respira è quella del poema epico in movimento.
Quando invece l’obiettivo si allarga sui Nove Regni, mostra panorami ben più vasti di quelli incontrati in passato, svelando grigi deserti da esplorare liberamente in lungo e in largo, arcipelaghi rocciosi che svettano fra laghi sulfurei, persino enormi paesaggi aridi che cambiano completamente forma e volto a seconda delle azioni di Kratos, che ne trasforma la morfologia in prima persona alzando il sipario su tonnellate di segreti da scoprire.
L’essenza ludica di God of War è rimasta sostanzialmente invariata, accogliendo diversi potenziamenti che iniziano proprio dalla struttura dell’universo di gioco. Con nove mondi a disposizione, Santa Monica Studio ha restaurato la sua formula a mappe aperte per accomodare sezioni decisamente più ampie, quasi degli open-world in miniatura che ospitano dozzine di contenuti opzionali e inframezzano l’incedere della trama, come sempre ancorata invece a un binario molto più lineare e ricamato attorno all’idea della qualità totale.
Prendendo deviazioni dal percorso principale s’incontrano missioni collaterali molto più profonde che in passato, legate a doppio filo con la caratterizzazione dei personaggi e con il racconto della mitologia norrena, forti di un impatto visivo che non ha nulla da invidiare al viaggio più importante. Sullo sfondo, intanto, fanno capolino tutti i sistemi incontrati nell’originale, tra immancabili enigmi ambientali da risolvere sfruttando le abilità dei nostri eroi, forzieri nornani da scassinare con spirito d’osservazione, e tanti tesori da accumulare mentre si è cullati dalle voci dei protagonisti.
Quello del dialogo è infatti rimasto un elemento centrale, ed è a tutti gli effetti un’incessante colonna sonora che accompagna il Fantasma di Sparta senza mai abbandonarlo, che si tratti dei divertenti aneddoti di Mimìr, delle infinite domande di Atreus, o del contributo di altri personaggi al loro esordio sul palcoscenico. Oltre a intessere la trama e dipingere i caratteri in modo magistrale, le interazioni vocali danno una grossa mano anche nelle fasi di puro gioco, suggerendo percorsi secondari, aiutando nella risoluzione dei puzzle, invitando persino il giocatore a non trascurare l’esplorazione.
Ma God of War non sarebbe tale senza combattimenti degni di un dio spartano, e così Santa Monica Studio ha scelto di calare gli assi proprio in questo segmento, aumentando pericolosamente la profondità della sua creazione. Sarebbe un crimine svelare le più pesanti novità che hanno impattato tale comparto, ma queste hanno inizio proprio dalla gestione dello sviluppo, ora decisamente più stratificata e finalmente aperta al concetto stesso di build.
È possibile personalizzare interamente l’arsenale di Kratos, non solo sbloccando abilità e devastanti attacchi runici, ma studiando nel dettaglio l’equipaggiamento per conferire vantaggi unici in combattimento – come l’attivazione della rigenerazione al verificarsi di determinate condizioni o la capacità di infliggere pesanti status negativi – puntando sull’approccio dalla distanza oppure sul corpo a corpo, su una tattica brutalmente aggressiva o su una più riflessiva a base di contrattacchi chirurgici.
Il combat-system, che rimane ancorato alla formula d’azione sospesa tra stylish-action e dinamiche soulslike, si è fatto più fluido e decisamente più tecnico, e assieme a lui sono cresciuti anche gli avversari. Non solo per numero, dal momento che la varietà è notevolmente aumentata, ma specialmente sul piano strategico, richiedendo tanto approcci dedicati quanto lo sfruttamento di specifiche armi e tecniche indispensabili per annullarne le difese impenetrabili o la devastante offesa.
Il medesimo discorso resta valido sul fronte dei mid-boss e dei boss. Se i primi sono lievitati oltremisura e ora spaziano fra Draurgr, Dreki, Guerrieri Seidr, Viandanti e tanti altri – pur conservando alcune note di ripetitività – i secondi beh, già erano stati in grado di entrare a far parte della leggenda nell’episodio precedente, ma se quella del Ragnarök rappresenta un’arena perfetta e mette in scena battaglie belle da mozzare il fiato, una piccola parte di noi è convinta che sarebbe stato possibile fare qualcosina di più.
La verità è che God of War: Ragnarök è tutto questo e anche molto altro, è più della somma delle singole parti, perché da il meglio di sé quando queste si muovono in sinergia. Capita di affrontare sequenze d’azione al cardiopalma, fra le migliori mai realizzate, e di riemergere dal caos al cospetto di veri e propri quadri animati che mescolano fondali da sogno con l’elemento divino, per poi alla fine ritornare ad esplorare nel silenzio le fragilità e l’intimità dei personaggi.
Questo è il ciclo che guida le azioni di Kratos e Atreus nell’arco delle venticinque ore necessarie per raggiungere i titoli di coda, che lieviteranno fino a più di cinquanta per chiunque scegliesse di esplorare nel dettaglio tutti i Nove Regni. Forti dell’esperienza maturata in passato, i Santa Monica hanno voluto estendere ulteriormente la vicenda punteggiando il mondo di gioco di attività, risvolti narrativi e interazioni anche successive al finale. E sì, in caso ve lo stiate chiedendo, in seguito alla liberazione delle Valchirie hanno pensato bene di inserire nuove sfide capaci di prenderci a calci.
Se fino a questo momento non abbiamo proferito parola sul comparto tecnico è perché c’è ben poco da dire: God of War: Ragnarök è un lavoro allo stato dell’arte. Su PlayStation 5 riesce a brillare sia in modalità Performance che in Qualità senza la minima sbavatura, e al netto di qualche texture meno curata nelle aree più lontane dai binari della narrativa, mette in scena un livello di dettaglio grafico e una cura verso le animazioni su cui è praticamente impossibile eccepire. L’unico neo riguarda ovviamente la natura cross-gen: se i risultati sono questi, vien da chiedersi cosa sarebbe stato possibile fare con un lancio proiettato solamente nel futuro, specialmente nell’ambito dei caricamenti “mascherati” durante l’esplorazione.
Risultati che traggono ancora maggior valore dalla prova attoriale degli interpreti, non solo nelle fasi dialogiche ma anche nella gestualità, alla quale peraltro corrisponde una altrettanto valida localizzazione in italiano. È questo il cinema di Santa Monica Studio: uno spettacolo ricamato attorno all’azione che in certi momenti non ha nulla da invidiare alle più impegnative produzioni hollywoodiane, mescolando violenza e redenzione sullo sfondo della mitologia, mentre in sottofondo tuonano i fiati di un’epica colonna sonora.
God of War: Ragnarök è la conclusione di un poema epico moderno, un grande racconto di formazione, un crogiolo ricolmo di di contenuti dei quali oggi abbiamo solo scalfito la superficie. È un’opera che necessita di essere fortemente metabolizzata: sappiate che se avessimo scritto questa recensione un istante dopo aver concluso il viaggio sarebbe stata completamente diversa. Perché bisogna voler comprendere – e soprattutto scegliere se accogliere – l’ambizione creativa degli autori: potente nel messaggio, dolceamara nel racconto, indubbiamente distante dall’anima storica del “videogioco God of War”.
Qui, sotto i cieli infuocati dei Nove Regni, si chiude in modo sorprendente l’avventura norrena di Kratos. Un uomo che ha perso la sua umanità lungo la violenta strada per diventare un dio e che nel corso degli ultimi anni sta lottando per riagguantarla, per diventare migliore, osservando il riflesso di sé stesso negli errori commessi da altri individui spezzati.
E poi, all’improvviso, la fine dei tempi sopraggiunge sotto i cieli innevati di Midgard. È possibile sfuggire al proprio destino?
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