Vi ricordate le classiche fiabe della buonanotte? Oppure quelle notti in cui avete chiesto alla mamma o al papà di accendervi la lampada per paura del buio, tenendo stretto il vostro peluche preferito? Se non siete stati tra quei bambini a cui raccontavano le avventure di Cappuccetto Rosso prima di coricarvi per la notte, tirando su la copertina con un bacio in fronte, sicuramente avrete assistito a questa scena in molteplici occasioni in film e serie tv.
Ciò che ci spaventava da piccoli prende vita in questo gioco ad opera di Trinity Team, studio di sviluppo conosciuto anche grazie a Bud Spencer & Terence Hill: Slaps and Beans. La piccola Alicia, protagonista indiretta del gioco, cade in un sonno profondo in cui gli incubi prendono il sopravvento e la tengono così prigioniera senza possibilità di risvegliarsi. Come in ogni favola che si rispetti, quando una bambina è in pericolo, ben presto un eroe correrà in suo soccorso.
L’eroe in questo caso siamo noi, calati nella morbida e un po’ logora gommapiuma dell’orsetto dell’infanzia, finora dimenticato nel baule dei giocattoli. In realtà Bear, in prima battura non è proprio il salvatore che ci saremmo attesi ma un vecchio peluche rancoroso per essere stato gettato come tutti gli altri giocattoli. Ad insistere per salvare Alicia è la Luce una versione magica della luce accesa durante la notte per scacciare via i mostri, realizzata come una sorta di lucciola splendente.
Sebbene le fattezze lo inquadrino come un dolce compagno di giochi, il nostro Bear ha un doppiaggio rude, da uomo consumato dal whisky e dal tabacco mentre la Luce ha una voce femminile squillante e fanciullesca. Sin dall’inizio è chiaro come il protagonista sia ben lontano dal cuccioloso compagno di gioco che era un tempo e con battute taglienti e sagaci porta su schermo una visione un po’ più brutale di quanto fatto da Pixar con Toy Story.
Appurato che non eravamo al cospetto di qualcosa di dolce e smielato abbiamo iniziato l’avventura negli incubi di Alicia e con grande sorpresa il primo personaggio che abbiamo incontrato è stato Cappuccetto Rosso, una rivisitazione ben lontana da quella che amavamo nella fiaba.
The Darkest Tales poggia tutta la propria narrativa e i conseguenti colpi di scena sul reinterpretare in toni molto cupi e tetri tutto ciò che da fanciulli riusciva invece a calmarci e a strapparci un sorriso. L’intera storia funziona, supportata da un buon livello grafico e da un’ottima realizzazione di scenari che riescono a farci immergere ancora di più all’interno del gioco e a farci capire quasi immediatamente a quale fiaba si faccia riferimento. Le aree totali sono nove, tutte diverse tra loro e con atmosfere differenti, nonostante la tematica di fondo sia sempre la medesima: combattere creature e mostri.
Non si tratta però di qualcosa di originale, dobbiamo ammetterlo. La trasformazione delle fiabe in tinte cupe è stata protagonista non solo in molti videogiochi ma anche in molteplici trasposizioni cinematografiche. The Darkest Tales inoltre non cerca di rivoluzionare neanche il gameplay, adottando meccaniche piuttosto conosciute nei platform e metroidvania, da cui prende solamente le basi senza abusarne.
Sarebbe infatti piuttosto facile assimilarlo ad un Hollow Knight o ad Ori ma a conti fatti, a parte un sistema di recupero della vita e dell’equipaggiamento di abilità in slot interscambiabili, non vi è molto altro. Trattandosi di una storia estremamente lineare quella di The Darkest Tales, paragonarla ad una struttura più elaborata come quella messa in campo da Team Cherry risulta un confronto decisamente azzardato. Il gioco di Trinity Team è senza dubbio più contenuto, tanto che ci siamo trovati ad affrontare il boss finale (anch’esso facilmente intuibile dopo la prima mezz’ora di gioco) in circa sei ore.
L’avventura vissuta è stata senza dubbio piacevole, con dettagli molto curati come ad esempio l’arma che ci ha accompagnato per tutto il gioco, rappresentata da una forbice spezzata a metà che progredendo diviene sempre più veloce e letale. Vi è inoltre un doppiaggio in inglese molto buono, che riesce a caratterizzare in modo calzante i personaggi ed i protagonisti; abbiamo poi apprezzato la presenza dei sottotitoli nella nostra lingua (per nulla scontato per le produzioni minori).
Anche il livello grafico risulta piuttosto riuscito, seppur non proprio originale, come d’altronde anche le sfide ambientali e le animazioni sia dei protagonisti che dei nemici, un insieme di molti elementi piuttosto ricorrenti in altri titoli del genere. Ad uscirne un po’ sottotono sono anche le boss fight, non particolarmente ispirate nei pattern di attacchi e negli effetti a schermo che in molte occasioni si sono rivelati quasi del tutto assenti.
The Darkest Tiles è comunque un’opera valida, interessante e divertente ma la maggior parte di tutto ciò è dovuto al carisma di Bear e all’idea narrativa su cui si basa l’intero gioco. È chiaro come Trinity Team non arrivi sul mercato per innovare e lasciare a bocca aperta l’utenza con rivoluzionarie meccaniche ma semplicemente per offrire una visione di fiaba (a lieto fine) dai toni diversi, l’altra faccia della medaglia dei personaggi che abbiamo amato da piccoli.
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